Chi sei tu per farlo?

Con quei pantaloni di lino, la macchina fotografia e l'ansia. Ma chi te lo fa fare di essere unə antropologə? Ce lo chiediamo sempre, anche in questo doppio incontro sui dubbi del fare etnografia. Ci interroghiamo su come la nostra persona contribuisca a definire le ricerche che facciamo.

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L'antropologia non è una disciplina facile, né da fare né da spiegare. Noi siamo ancora studentə - antropologə alle prime armi - e abbiamo allora deciso di dedicare degli incontri alla questione del fare. Da questi nascono le brevi riflessioni che presentiamo qui. Gli incontri, uno fra solə studentə e uno con due professorə (Silvia Vignato e Paolo Grassi), hanno voluto essere l'occasione per sfogare dubbi e preoccupazioni in cerca di consigli e sostegno reciproco.

Chiunque incontra l'antropologia si pone molto presto la domanda di cosa sia questo campo del sapere e, molto presto, anche quella su chi siano lə antropologə. Forse è anche a causa dell'ambiguità che circonda la disciplina e della sfocatura dei suoi confini, che siamo spinti ad aggiungere ulteriori domande senza mai trovare delle risposte soddisfacenti. Chi ha la fortuna, o la sventura, di decidere anche di intrapredere l'antropologia come percorso di formazione, finisce col confrontarsi con quesiti esistenziali come: posso fare davvero l'antropologia? Avrò letto abbastanza per poter andare sul campo? Sono la persona giusta per condurre interviste con degli sconosciuti? Forse sulle abilità posso giocarmela, però chi mi dà l'autorizzazione?

La dimensione personale è sicuramente quella che ci fa sorgere i dubbi maggiori quando ci avviciniamo al lavoro di campo. La ricerca viene fortemente influenzata dalle nostre personalità, identità di genere, storie accademiche, nazionalità, aspetto estetico, pregiudizi, abitudini e attitudini. Molte di queste cose sono irriducibili ma i limiti che pongono al nostro operato possono essere negoziati. Diversə di noi, durante le prime esperienze, si sono sentitə inadattə al compito - perché introversə, con conoscenze pregresse dellə interlocutorə, oppure perché non si aveva un'idea chiara riguardo i propri obiettivi. Sentimenti ed emozioni sono sempre da tenere in considerazione quando ci si mette in gioco, così come i momenti di crisi e i fallimenti. Le etnografie classiche ci hanno abitutatə a un immaginario irrealistico di come sia unə antropologə: un camaleonte, lə osservatorə perfettə, capace di interagire con chiunque e abile nel ricavare i significati dalla rete sociale in cui si inserisce. In poche parole, la persona giusta. La verità è che tutto questo non esiste se non nel suddetto immaginario. Il contributo soggettivo, sia implicito che esplicito, definisce sempre e in buona misura la relazione con il campo. Per non parlare di ciò che sta al di fuori dellə ricercatorə: contingenze storiche, assegni di ricerca, interlocutorə e professorə, ognunə con i rispettivi bagagli personali. Da diverse esperienze - che non racconteremo qui - emerge come una delle poche vere qualità dellə antrologə è l'abilità di adattarsi, o quantomeno la volontà a farlo. Adattarsi alle difficoltà, essere dispostə a modificare la propria ricerca in base al flusso degli eventi, ostinarsi ad andare avanti. Ogni etnografia contiene una parte di autoetnografia, in cui si evidenzia il legame personale che si instaura con il campo. Prima e dopo la ricerca, etnografə e campo non sono rimasti immutati; il cambiamento è un elemento centrale ed è importante tenerlo in luce e non lasciarlo scivolare solo nel nascondiglio dei diari privati.

Due punti fra tutti sono emersi nella discussione: il cibo e la sfera di genere e sessualità. Due aspetti della nostra identità che influiscono molto sulla nostra esperienza di campo.
Scegliere cosa mangiare e cosa no, scontrandosi con le proprie abitudini alimentari, può creare un primo momento di crisi nell'approccio alla ricerca. Da un lato, il cibo è un mezzo di condivisione che alimenta le relazioni sociali stesse, oltre che i nostri corpi. Dall'altro, ognunə di noi può avere, per tutta una serie di motivi, alcuni tabù alimentari che ci impediscono di partecipare completamente alla dieta della comunità. Come fare in quel caso? Cambiare se stessi per aderire completamente al campo, o far valere i propri valori rischiando di inserire della distanza indesiderata con lə interlocutorə? Un approccio universale non esiste, fa parte di quei dubbi fondamentali che non si possono mai risolvere una volta per tutte. La risposta può variare da contesto a contesto e, come abbiamo voluto fare in questi incontri, può essere informata anche dalle discussioni con lə colleghə.
Un discorso simile può essere fatto quando si parla di identità di genere e aspetto fisico. Anche se non in tutti i contesti possono risultare rilevanti, sono molti i casi in cui possono influenzare le possibilità di ricerca. Dall'ingresso al campo alla sicurezza personale, dalle relazioni interpersonali alle informazioni accessibili, sono molti i fattori che possono alterare le situazioni in cui ci troviamo. Anche qui, però, non ci sono soluzioni facili. In alcuni casi si può negoziare la propria presenza, in altri si può solo accettare il rifiuto, e in altri ancora bisogna affrontare delle difficoltà aggiuntive che altrə in quel posto non avrebbero.

Da che parte ti giri saltano fuori ostacoli agli ideali di una ricerca scientifica pura e oggettiva. Ma l'antropologia non è fatta di leggi universali e tabelle impersonali. Ogni etnografə contribuisce con la propria esperienza e il proprio bagaglio ad ampliare quei confini che si fa fatica a vedere. E proprio nella loro invisibilità rivelano la qualità principale dell'antropologia: l'adattabilità. Non esiste la persona giusta, capace di stare in ogni angolo di mondo, ma ci sono tante persone imperfette, ognuna capace di adattarsi ad un ristretto ventaglio di possibilità. Pregio e difetto della disciplina è proprio che ogni etnografia è un mondo a sé, che si compie nell'incontro fra unə etnografə particolare con un campo particolare. La nostra, come tutte del resto, è una disciplina che trova nella collaborazione la propria forza, e per questo abbiamo riproposto tutti questi dubbi ad alcuni nostri professorə.

Questo ulteriore scambio di esperienze ha confermato come i dubbi siano compagni sempre presenti nella ricerca e come tempo e flessibilità sono due elementi fondamentali per portare a termine un'etnografia. Fino alla fine, si hanno sempre dubbi riguardo il lavoro: abbiamo raccolto abbastanza materiale? Sarà una domanda di ricerca valida? È meglio avere un piano B nel caso le nostre aspettative non vengano rispettate? E un piano C? D? E se l'etnografia non verrà ben accolta?
Finché non si fa, non si può sapere. Non si arriverà mai abbastanza preparatə sul campo, il caso gioca sempre un ruolo centrale. L'ansia prima, durante e dopo la ricerca per alcunə è ineludibile, solo l'esperienza può aiutare a ridimensionarla. Da ridimensionare sono spesso anche le stesse aspettative: a nessuno è richiesto di rivoluzionare la disciplina o inaugurare nuovi rami della ricerca, l'importante è riuscire a produrre una tesserina da inserire nel grande mosaico dell'antropologia.
Serve essere in grado di accogliere i cambiamenti e riconoscere quando le nostre aspettative si basano su delle idee preconcette piuttosto che su quello di cui facciamo esperienza. Un rifiuto iniziale, unə interlocutorə sbagliato, o un ostacolo burocratico, non sono necessariamente dei blocchi insormontabili, soprattutto nelle fasi iniziali. Per uno stesso campo ci sono diversi ingressi e, anche qui, l'esperienza, propria o altrui, può aiutare a rinegoziare l'accesso e la ricerca. Soprattutto per chi è agli inizi di una possibile carriera etnografica, è impensabile avere delle intenzioni chiare su cosa fare, con chi parlare, a che conclusioni ambire.

L'ultimo argomento di cui abbiamo trattato è quello della restituzione, una fase della ricerca da molti considerata imprescindibile ma circondata da tanta retorica. C'è tanta confusione a riguardo e ognunə ha la sua idea su cosa significhi. Partiamo dalla parola in sé: restituire vuol dire che si è preso qualcosa, ma già questo non rispecchia una buona parte delle ricerche. Inoltre, per molti la restituzione è legata al testo che viene prodotto alla fine della ricerca, ma gran parte dellə interlocutorə non è interessata ad una pubblicazione accademica; spesso, anzi, non parlano nemmeno la lingua in cui verrà scritta l'etnografia. La restituzione è meglio intesa come una partecipazione attiva alla vita sul campo: prestarsi a dei favori, aderire ad obblighi relazionali, seguire le norme di condotta e non nuocere nessuno.

L'unicità dellə etnografə si riflette tanto nelle ricerche quanto nei dubbi che si hanno. La quota personale che l'antropologia richiede non è esigua ma è necessaria se si vuole riuscire a percepire, anche solo parzialmente, alcune delle persone che ci circondano.

Ringraziamo per i loro interventi, in ordine alfabetico: Alessandra, Anna, Claudia, Eivor, Elisa, Emma, Ester, Giacomo, Leonardo, Maddalena, Marco, Paola, Paolo Grassi, Sara, Silvia Vignato.

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