Ecologia Culturale

La prospettiva dell'abitare di Tim Ingold. Ovvero un approccio dinamico all'esistenza, in modo da abbattere vecchie dicotomie a favore di nuove relazioni fra gli esseri viventi e i luoghi che occupano.

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Una buona parte delle riflessioni di Tim Ingold parte da una domanda apparentemente semplice: qual è la differenza fra una casa e un albero? Da qui, propone la “prospettiva dell'abitare,” in contrapposizione alla “prospettiva del costruire,” ai fini della nascita di un'antropologia che abbia delle basi finalmente decolonizzate.

La prospettiva del costruire sarebbe riassunta dal pensiero di Clifford Geertz, per il quale la cultura viene concettualizzata come un quadro di riferimento simbolico che costruisce la realtà. Analizzando meglio questo punto di vista, tuttavia, la cultura si presenta come un sostrato della natura, dalla quale attingerebbe le materie prime, i dati sensibili per la propria costituzione: un principio ordinatore per la materia indistinta che si trova nel mondo. Una prospettiva, dunque, che si instaura sulle dicotomie di natura-cultura e corpo-mente.
La prospettiva dell'abitare confuta queste premesse. Fra i primi a proporne una versione troviamo Martin Heidegger, filosofo tedesco della prima metà del secolo scorso, che si chiese cosa serve affinché un edificio diventi una casa. La casa è abitata, mentre l'edificio è considerato la realizzazione compiuta di un progetto. Eppure nessun edificio è mai davvero concluso e la casa non è un'entità autonoma e statica, che si reitera nel tempo: la sua definizione deriva dagli esseri che la abitano. Una casa è tale non solo per gli esseri umani che la continuano ad arredare e significare, ma anche da un vasto insieme di altri esseri viventi, come animali o muffe. Allo stesso modo, quando un edificio viene abbandonato, non smette di essere una casa; nuovi inquilini sono sempre pronti a abitare gli spazi lasciati indietro dai precedenti. I luoghi abitati non sono quindi delle costruzioni autonome, che prima vengono progettati, poi edificati e infine abitati; sono un processo sempre in atto, in cui il costruire diventa un abitare.

Si passa da una posizione stratigrafica, secondo cui esistono due strati diversi di realtà (il materiale esterno e l'intenzionalità umana che lo modella), ad una posizione connessionista, secondo cui esiste corrispondenza fra l'artefice e il materiale (i due sono inscindibili).
Se nella prima i processi sono ilomorfici, in cui una forma è il prodotto di un'idea che la precede, in questa nuova prospettiva i processi di creazione diventano morfogenetici, per i quali una forma è il prodotto dell'azione che l'ha creata e prima di questa non esisteva.
Vista così, la realtà che ci circonda diventa il prodotto delle interazioni fra gli elementi che la abitano. Condizione obbligatoria di ogni azione è l'incontro fra più parti; l'assemblaggio temporaneo che si crea fornisce il contesto da cui emergono le possibilità di realizzazione. Tutto è determinato dai processi con cui entriamo in contatto e dalle modalità di interazione con essi; la nostra realtà è la nostra percezione del mondo. Se la casa equivale ad un edificio, non scorgeremo mai un albero come la casa di diverse altre specie, e nemmeno una tenda come possibile abitazione di un essere umano.

Oltre a natura-cultura, per Ingold è importante contrastare anche la divisione tra mente e corpo, tra interno ed esterno. L'idea di processualità domina anche la dimensione della soggettività: non c'è una realtà interiore che controlla quella esteriore, ma esiste un'interconnessione reciproca fra le parti di un assemblaggio che contribuisce a creare i vari processi. Non c'è una gerarchia di volontà che si scontrano da cui emerge quella più forte, o più intenzionale; si sviluppano costantemente nuove interazioni che si susseguono spesso senza una diretta causalità. In quest'ottica, Ingold propone di sostituire al concetto di agency (capacità individuale di agire intenzionalmente) il concetto di animacy (capacità di ogni essere di esistere nel mondo, la forza vitale). Se nel primo si predilige una visione antropocentrica, in cui ogni attore ha una propria intenzionalità che negli incontri si scontra con quella altrui, nel secondo caso le relazioni avvengono fra traiettorie di vita che per un determinato periodo si intersecano producendo nell'incontro una terza, nuova, forma.

Tornando alla domanda iniziale, la differenza fra una casa e un albero, fra ambiente artificiale e naturale, è solo di grado e non tipologica: in alcuni momenti prevale una delle due dimensioni, ma né l'una né l'altra può definire esclusivamente la realtà di uno spazio. L'interazione umana avviene a fianco dell'interazione degli altri abitanti.

Un altro punto di riflessione di Ingold sta nella distinzione tra antropologia ed etnografia. Per spiegarla, Ingold propone questa analogia: lə etnografə osserva e descrive tecniche e biografie di un gruppo di violoncellisti; lə antropologə si interroga sul perché e come si impara a suonare il violoncello, affiancandosi ad un maestro che insegna loro. La divisione è netta e può non essere condivisa, ma Ingold propone ancora la distinzione fra un pensiero statico e uno dinamico. L'etnografia rappresenterebbe una disciplina statica, dedita all'osservazione e alla descrizione passiva dei fenomeni così come sono; uno sguardo all'indietro a scopo documentaristico se non collezionistico. L'antropologia sarebbe invece un esserci nel presente, un'attenzione all'assemblaggio che si crea fra antropologə e interlocutorə. Se la prima studia le persone (disciplina autoreferenziale, documenta per il fine di documentare), la seconda studia con le persone (disciplina interconnessa, che promuove il processo piuttosto che il risultato).
Ingold sottolinea il carattere pedagogico e trasformativo dell'antropologia, sia nei confronti dellə antropologə che di chi entra in contatto con i suoi studi: il fine ultimo è quello di corrispondere con il mondo, modificarsi insieme ad esso.

Questa seconda parte dell'incontro è sicuramente quella che ha fatto scaturire le maggiori discussioni: è davvero così netta e possibile la divisione fra etnografia e antropologia?
Alcunə di noi sostenevano che l'antropologia non si può definire solo in base alla compartecipazione attiva sul campo, difendendo l'utilità nelle ricerche di una parte quantitativa e storica riguardo il contesto e gli studi precedenti. Anche l'etnografia come prodotto finale, scritto ma non solo, è fondamentale per l'avanzamento della disciplina. Le critiche di Ingold sono soprattutto rivolte ad un approccio accademico e logocentrico alla conoscenza, in cui questa è una risorsa che si può raccogliere, catalogare e diffondere basandosi soprattutto sulla scrittura o altri mezzi di comunicazione indiretta. La distinzione serve ad evidenziare sia gli elementi positivi che quelli negativi della disciplina, per ricordare che uno dei suoi scopi principi è quello di riflettere su e trasformare la nostra relazione con la realtà; andiamo in comunità diverse non per collezionarle in un archivio sempre più completo dell'umanità ma per mostrare che alternative alla nostra concezione del mondo sono sempre possibili e spesso già presenti. Questo si raggiunge con l'incontro e la discussione, con la presenza attiva nei dialoghi dell'apertura verso l'altro. È un invito a riscoprire la dimensione pratica dell'esistenza e a non rinchiudere il sapere dentro le ennesime teorie archiviate e decontestualizzate nelle accademie.

Anche l'abbandono del concetto di agency ha suscitato qualche dubbio. Seppur possiamo riconoscere la sua impronta antropocentrica, e la problematicità di dare il primato sempre alle intenzioni, è indubbio che rimane un concetto utile per riflettere su come gli assemblaggi di cui facciamo parte integrino anche elementi a cui comunemente non associeremmo l'idea di essere vivente. Una cosa importante da fare è non confondere l'agency con la responsabilità, in quanto quest'ultima non sempre deriva dall'intenzionalità dell'attore.

Sul finale, la discussione è rimasta aperta sul potenziale critico e analitico dell'approccio di Ingold. Se lo scopo di tutto è trasformarsi, se il primato è sempre dei processi, se i vari esseri viventi si trovano aggrovigliati in reti interconnesse di cui non sempre sono consapevoli, dove finisce la capacità critica dell'antropologia? Conosciamo con le persone, sì, però non ne scriviamo l'apologia. Non tutte le alternative sono uguali, non tutte le ricerche sono valide. In questa prospettiva, che cosa differenzia lə antropologə dal resto?

Bibliografia per approfondire

  • Ingold, Tim. 2001. Ecologia della cultura. Meltemi.
  • Ingold, Tim. 2014. «That's enough about ethnography!». HAU: Journal of the ethnographic theory 4 (1): 383-395.
  • Ingold, Tim. 2017. «Anthropology contra ethnography». HAU: Journal of the ethnographic theory 7 (1): 21-26.
  • Ingold, Tim. 2019a. Antropologia come educazione. Edizioni La Linea.
  • Ingold, Tim. 2019b. Making: Antropologia, archeologia, arte e architettura. Raffaello Cortina.
  • Ingold, Tim. 2020. Antropologia: ripensare il mondo. Meltemi.
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