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Leviathan

Un'etnografia sensoriale a bordo di un peschereccio americano. Ovvero fare un'antropologia di suoni, immagini e sensazioni.

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L'incontro di oggi ha previsto la visione del documentario etnografico Leviathan (2012) - diretto da Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel, antropologi presso il Sensory Ethnography Lab (SEL) di Harvard - accompagnato da una riflessione sull'antropologia sensoriale, una svolta creativa nel panorama dell'etnografia contemporanea che pone al centro dell'indagine le esperienze multisensoriali. Emma ha introdotto la discussione, spiegando come questa corrente si sia sviluppata negli ultimi anni in risposta ai modi tradizionali con cui l'antropologia ha rappresentato i soggetti umani, specialmente attraverso i media.

L'etnografia sensoriale si basa sull'idea che la conoscenza etnografica non derivi solo dal linguaggio ma da un'interazione complessa e multisfaccettata con il mondo materiale e sociale, mediata dai sensi. Come sostiene Pink (2009), l'etnografo agisce come un “apprendista sensoriale,” acquisendo conoscenza attraverso un coinvolgimento corporeo diretto e un'interazione empatica con il contesto studiato. Le radici metodologiche dell'etnografia sensoriale affondano nell'antropologia visiva e nella sociologia dei sensi, come evidenziato da autori come David Howes (2003) e Paul Stoller (1997), ma vanno oltre la semplice rappresentazione visiva. Questo approccio sfida il predominio della vista, esplorando dimensioni meno privilegiate come il tatto, l'udito e il movimento corporeo. In tal senso, si collega a concetti come l'“emplaced knowing” di Pink e Leder Mackley (2013), che sottolineano il ruolo della corporeità nell'acquisizione di conoscenza.

Durante l'incontro, riprendendo l'analisi di Nakamura (2013), Emma si è concentratə su due aspetti dell'antropologia sensoriale: quello estetico-sensoriale (aesthetic-sensual) e quello multisensoriale-esperienziale (multisensory-experimental). Il primo è nato dagli observational films di Robert Gardner, progenitore dell'Harvard Sensory Ethnography Lab, maggior espressione della corrente estetico-sensoriale; il secondo invece trova i suoi rappresentati in autori come Sarah Pink, Paul Stroller e David MacDougall.

La corrente estetico-sensoriale: il Sensory Ethnography Lab (SEL)

Fondata da Lucien Castaing-Taylor all'Università di Harvard, questa scuola di pensiero si concentra sull'etnografia estetico-sensoriale, che privilegia un'immersione emotiva attraverso forme visive e uditive. I documentari prodotti dal SEL, come Leviathan (2012) e Sweetgrass (2009), esplorano il potenziale del cinema nella creazione di esperienze sensoriali intense e coinvolgenti, riducendo al minimo narrazioni verbali o didascaliche. Il SEL enfatizza l'integrazione tra etnografia e arte, cercando di rappresentare la complessità delle esperienze umane e le loro dimensioni affettive in modi che le parole da sole non potrebbero esprimere:

“Harnessing perspectives drawn from the arts, the social and natural sciences, and the humanities, SEL encourages attention to the many dimensions of the world, both animate and inanimate, that may only with difficulty, if it all, be rendered with words” (Harvard SEL, 2012).

Questa corrente mantiene un focus marcato su vista e udito, utilizzando immagini e suoni per trasmettere stati emozionali e atmosfere. Tuttavia, è stata criticata per la limitata esplorazione di altri sensi come il tatto, l'olfatto o il gusto, rimanendo ancorata a una tradizione prevalentemente visiva.

La corrente multisensoriale-esperienziale: Sarah Pink

Sarah Pink, autrice di Doing Sensory Ethnography (2009), promuove un approccio multisensoriale ed esperienziale, sottolineando come la conoscenza etnografica derivi dall'interazione corporea e sensoriale con il mondo. Questo approccio cerca di superare il predominio della rappresentazione visiva, sottolineando l'importanza dell'embodiment e dell'engagement empatetico durante il lavoro sul campo:

“I propose an emplaced ethnography that attends to the question of experience by accounting for the relationships between body, minds and the materiality and sensoriality of the environment” (Pink 2009, 25).

Pink incoraggia l'uso di metodologie ibride e sperimentali per catturare la ricchezza della percezione umana, integrando dimensioni sociali e materiali spesso ignorate. Il suo lavoro si distingue per l'attenzione al corpo come strumento attivo di conoscenza e per il tentativo di creare narrazioni etnografiche che riflettano la complessità multisensoriale del vissuto umano. Questo approccio non si limita alla raccolta di dati sensoriali, ma mira a creare narrazioni etnografiche che rappresentino la ricchezza sinestetica delle esperienze umane. In definitiva, l'approccio di Pink invita gli antropologi e le antropologhe a considerare il lavoro sul campo come un processo interattivo e creativo, in cui i sensi non solo registrano il mondo, ma partecipano attivamente alla sua costruzione.

Il documentario

Il documentario che abbiamo guardato insieme si inserisce nella prima tradizione ed è ambientato su un peschereccio statunitense a New Bedford (Massachusetts), le acque descritte da Melville in Moby Dick. Inizialmente, l'obiettivo era rappresentare il porto della cittadina, ma per una serie di coincidenze e opportunità (già affrontate nel nostro primo incontro dell'Anno I, parlando di serendipità nel lavoro sul campo), si è scelto di girare direttamente sulla nave, di notte, durante le operazioni di pesca. Un imprevisto ha reso il progetto ancora più originale: la videocamera professionale è andata persa in mare, costringendo i registi a utilizzare delle GoPro. Questa scelta forzata si è rivelata vincente, regalando al film prospettive inedite e immersive. Grazie al posizionamento strategico delle videocamere e all'uso di tecniche che riducono l'intervento diretto degli operatori, il documentario riesce a offrire prospettive molteplici e a decentrare lo sguardo umano. È stato così possibile cogliere il lavoro di un marinaio dal suo stesso punto di vista, un uccello intento a raggiungere un pesce sulla nave, le reti da pesca sott'acqua colme di frutti di mare, e l'alternarsi di acqua e aria attraverso il movimento della prua della nave.

Senza rivelare troppo della trama, ci concentriamo ora sulla discussione nata in seguito alla visione. Un aspetto che ha colpito molti di noi è stata la totale mancanza di misure di sicurezza per i marinai. Eivor ha osservato che il posizionamento delle videocamere permetteva di cogliere punti di vista molteplici: quello dei marinai, quello dei pesci (non a caso elencati tra gli “attori” nei titoli di coda), e quello del mare stesso, anch'esso menzionato. Questo approccio ha evidenziato come uno stesso soggetto, i pesci, possa essere percepito in modi radicalmente diversi: come esseri vitali dalla loro prospettiva, come corpi da processare meccanicamente dai marinari e infine come oggetti trasformati in scarto o cibo per altri animali, i gabbiani. Le riprese subacquee, invece, hanno messo in luce l'azione umana come una perturbazione invasiva che cala dall'alto, sconvolgendo un equilibrio naturale.

Alessandra ha proposto di contestualizzare il documentario all'interno dell'antropologia della materialità, una corrente di studi che tenta di superare l'antropocentrismo osservando gli ecosistemi, gli oggetti e i sensi che interagiscono con gli attori sociali, citando studiosi come Latour e Ingold. Questo approccio suggerisce uno sguardo più ampio e consapevole al lavoro sul campo, includendo questi elementi spesso trascurati.

Ci siamo poi interrogati sulla natura del film: si tratta di un documentario etnografico? Siamo giunti alla conclusione che sì, lo è. L'interpretazione dell'autore si manifesta nel montaggio, nella selezione delle scene, e nella scelta dei luoghi e dei soggetti per posizionare le GoPro. Tuttavia, manca una tematizzazione esplicita della presenza e delle scelte dell'autore, quella che definiamo “riflessività”. Questo deficit, però, è compensato da una minore mediatezza (pur mai completamente assente) nella restituzione delle esperienze.

Nonostante le riflessioni più specifiche che noi antropologi possiamo fare grazie alla nostra formazione, il valore estetico del film lo rende fruibile anche a un pubblico più vasto. Alcuni si sono chiesti se le scene crude potessero essere interpretate come voyeuristiche o addirittura come “pornografia del dolore”. Emma ha suggerito di no, poiché la sofferenza non è mostrata solo attraverso gli animali, ma anche attraverso i marinai, meccanici e alienati nel loro lavoro.

Marco ha citato I contadini del mare di Vittorio De Seta, sottolineando come il documentario mescoli immagini di braccia dei pescatori, arpioni e pesci sanguinanti, creando una visione confusa ma autentica. Questa complessità, secondo Francesco, è ripresa anche in Leviathan attraverso la scelta di includere nei titoli di coda i nomi delle specie, trattandoli come elementi paritari nel paesaggio del peschereccio. Francesco ha inoltre colto un'intenzione epica nell'opera, evidente nel titolo, nella citazione biblica iniziale, nella musica heavy metal ascoltata dai marinai e nella decisione di ambientare il film in mare aperto. Questo contrasto tra la cornice epica e la realtà cruda e meccanica dei protagonisti, siano essi uomini o animali, è una delle chiavi di lettura più potenti del documentario. L'opera, secondo Paolo, riesce a trasmettere, con qualche inevitabile limite, le percezioni vissute dagli attori: disgusto, alienazione, fatica. Ci troviamo di fronte a uno scenario di umanità schiacciata e di natura viva, anche di fronte alla morte.

Questo documentario, con tutte le sue provocazioni e i suoi limiti (non riusciamo, ad esempio, a cogliere pienamente il punto di vista dei pesci), rappresenta un passo verso un'analisi più complessa di questa dimensione, spingendoci a “complessificare” ed esplorare nuovi modi di osservare e interpretare il campo. In definitiva, l'etnografia sensoriale rappresenta non solo un metodo di ricerca, ma un invito a ripensare l'etnografia come una pratica che intreccia percezione, corporeità e creatività, aprendo nuove possibilità di rappresentazione e comprensione del vissuto umano.

Bibliografia

  • Howes, D. (2003), Sensing Culture: Engaging the Senses in Culture and Social Theory, University of Michigan Press, Ann Arbor, Michigan.
  • Nakamura, K. (2013), “Making sense of sensory ethnography: the sensual and the multisensory”, American Anthropologist, Vol. 115, No. 1, pp. 132-144.
  • Pink, S. (2009), Doing Sensory Ethnography, Sage, London.
  • Pink, S., Leder Mackley, K., Mitchell, V., Hanratty, M., Escobar-Tello, C., Bhamra, T. and Morosanu, R. (2013), “Applying the lens of sensory ethnography to sustainable HCI”, ACM Transactions on Computer-Human Interaction, Vol. 20, No. 4, pp. 251-258.
  • Stoller, P. (1997), Sensuous Scholarship, University of Pennsylvania Press, Philadelphia, Pennsylvania.

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