La tematica che ci introduce oggi Paolo è trasversale a molte discipline che tutti possiamo aver incontrato in momenti diversi dei nostri percorsi accademici, sia antropologici che non. Discipline come geografia, antropologia politica, antropologia del turismo e sociologia sono solo alcuni esempi, ma in qualche modo anche solo visitando l'Italia possiamo aver avviato dei ragionamenti in merito.
Cominciamo a parlare di gentrificazione, argomento già trattato da Paolo nel suo scorso incontro per AnthroBic [Anno 0 - Incontro 2]. Con gentrificazione intendiamo un processo che consiste in un cambio radicale, attraverso specifiche politiche, nella popolazione di un determinato luogo; in particolare, avviene un cambio fra i residenti che vede un ceto più ricco sostituirsi al ceto più basso già presente sul territorio. Milano presenta diverse situazioni simili, nate in diversi punti della città: a partire da Navigli e Porta Genova negli anni Settanta, poi Porta Garibaldi e Isola, per estendersi infine alle altre zone interne come Gae Aulenti, City Life e NoLo. Questi processi hanno poi avuto un'accelerazione in anni recenti con Expo 2015 prima e con le Olimpiadi Milano-Cortina 2026 poi. Nell'incontro dell'anno scorso avevamo visto i vari meccanismi che mettono in atto questo cambiamento, visibile sia nelle persone che abitano i luoghi sia nell'architettura, che vede lo smantellamento delle strutture legate al passato “povero”. Anche quando la demolizione non ha luogo e gli edifici originali vengono mantenuti per rendere più discreto il cambio, questi sono sottoposti a ingenti lavori di restauro che conciliano l'immaginario povero bohémienne con i bisogni della nuova classe abitativa. Quando parliamo di paesi e di borghi il processo in atto è piuttosto simile. In questo incontro parleremo di altri tipi di gentrificazione, che mantengono la stessa struttura connotata da forti politiche neoliberiste ma applicata a fini più turistici, lontano dai grandi centri abitati.
Il modello urbano gentrificato è destinato ad entrare in crisi, non potendo permettersi di esistere solo per la minoranza più ricca della popolazione. Parte degli stessi promotori di questi processi, infatti, iniziano presto a percepire lo spazio che abitano come un luogo di alienazione e nasce la necessità di ritrovare una qualche forma di autenticità e originalità. Sono delle motivazioni culturali che, per prime, fanno breccia su una parte dell'establishment, senza che questo si renda però conto dello sradicamento sociale che provoca. È interessante vedere come, spesso, le politiche di gentrificazione siano portate avanti da attori sociali in contraddizione: dai palazzinari pronti a speculare sugli immobili alle associazioni culturali, tutti sono immersi in tali processi in maniera inconsapevole, prima che consapevole.
Arriviamo ora al concetto di “borgo”, che è stato ormai decontestualizzato e portato su una grande varietà di luoghi. Stando alla definizione originale, il borgo è strettamente legato alle dimensioni geografica e storica, e definito da determinate connotazioni architettoniche - tra queste l'isolamento (ha una estesa periferia agricola) e la presenza di una cinta muraria. Oggi, il termine borgo ha assunto una valenza patrimoniale, ponendo enfasi sulla rilevanza culturale del luogo e facendo sì che potenzialmente qualunque territorio assumere il titolo di borgo, a prescindere dalla sua realtà storica. Un esempio ci arriva dalla retorica che ruota attorno ai “borghi” liguri, nati come villaggi di pescatori e ben lontani dal borgo tipico delle zone rurali.
Il borgo diventa una merce il cui valore viene dato dalla creazione di un brand turistico a tinte medievali. Questo è frutto di scelte precise: tutto ciò che ha a che fare con il periodo medievale viene elevato a modello idilliaco di comunione con la terra e di vita semplice, senza considerare le forti contraddizioni dell'epoca e ignorando il resto della storia del territorio. Il Medioevo, o meglio, la sua idealizzazione, è oggi simbolo di un Eden perduto nelle cui tracce possiamo ritrovare la serenità. Una conseguenza di tale particolarizzazione del territorio è la separazione fra di esso e i dintorni. Nonostante gli sforzi del Secondo Dopoguerra di creare delle congiunzioni tra esterno ed interno, tra centro e periferia, oggi siamo tornati a creare nuove separazioni, motivate da quella che Paolo definisce una borgomania. In questa dinamica il borgo diventa un individuo che si staglia dall'indefinito che gli sta attorno. Questo ci porta a due problemi: si azzera la storia e si annulla la geografia. Il territorio viene diviso in due: da un lato i luoghi da cartelli marroni (di interesse storico, artistico, culturale e turistico) e dall'altro i luoghi dei cartelli bianchi, luoghi del nulla, dove si passa senza fermarsi. La città scompare e il villaggio non esiste più, quello che rimane è un “borgo” ipercaratterizzato e fossilizzato. La borghesia metropolitana in fuga idealizza il borgo nel tentativo (riuscito) di espandere la sua egemonia culturale. L'idea di questo processo è la ricerca di un paradiso dalle caratteristiche premoderne e preborghesi, dato che in città si è vittima delle proprie politiche. È essenziale riconoscere che questa è una narrazione tossica di natura borghese, che designa in maniera netta i luoghi del vivere e dell'abitare. I due verbi non sono equivalenti: si può vivere in un luogo senza abitarci, così come si può esservi residenti senza viverlo. Sul piano economico e sociale si instaurano specifiche gerarchie di priorità e di distribuzione delle risorse, con notevoli ricadute (per esempio l'investimento multimilionario “Attrattività dei borghi” nel PNRR).
Quando possiamo collocare storicamente questo processo? Sicuramente prima di internet, con alcune delle trasmissioni televisive nate negli ultimi decenni del secolo scorso trasmesse in orari di punta: Sereno variabile (1978-2019), Bella Italia (Bellitalia dal 1987) e il concorso “Il Borgo dei Borghi” (dal 2014) presentato dalla trasmissione Kilimangiaro (dal 1998).
Questi programmi parlano della bella Italia ma dobbiamo chiederci: qual è la brutta Italia? È quella in cui non ci verrebbe da fermarci se non per necessità, quei luoghi che non aderiscono agli stereotipi del turismo. Non ci sono i cartelli marroni, non c'è indicato un “centro storico”, eppure sono luoghi abitati e vissuti. Non sono luoghi vuoti, di passaggio, anzi, le persone che vi risiedono rivendicano orgogliosamente la loro appartenenza, nonostante da fuori si è sempre portati a pensarle come una massa che non vede l'ora di andarsene. Paolo ci parla di un 52% degli abitanti di luoghi “anonimi” che non solo non vuole andarsene ma sceglie volenterosamente di restare. Ci sono forti rivendicazioni identitarie che richiedono le necessità basilari della cittadinanza (parchi, biblioteche, centri per anziani) per rendere più vivibili luoghi già vissuti.
Nonostante ciò, i fondi del PNRR vengono distribuiti secondo canoni (velocità, cantierabilità ed eccellenza) che di fatto premiano borghi già vincenti come Portofino, San Giminiano e Assisi. L'impronta neoliberista in questo fondo è evidente: l'obiettivo esplicito è la costruzione edile e il restauro, e non vengono presi in considerazione i locali. Il criterio dell'eccellenza è estetico e strutturale: denota un luogo di valore, valore spesso dovuto ad una storia di potere. Il potere è sempre in cerca di riconoscimento e magnificazione; i fondi del PNRR vanno soprattutto al castello o alla grande villa piuttosto che ai luoghi della produzione operaia o contadina, al casale o alla fabbrica. E anche quando succede, non è per celebrarne la storia quanto per sfruttarne l'estetica antica.
Per mettere più a fuoco questi processi Paolo ci porta un esempio etnografico che conosce bene grazie alla sua attività di guida escursionista: il paese di Varenna, a metà della sponda lecchese del Lago di Como. Varenna è un paese di qualche centinaio di abitanti che nei mesi di alta stagione diventa un borgo che si trova a ospitare centinaia di migliaia di turisti. Si capisce che questo ha delle conseguenze a livello abitativo, sociale e spaziale (dal 2019 la popolazione è passata da 743 a 675, il 10% in meno). Varenna è sempre stata meta turistica dei ceti più alti della società, anche internazionali; ancora oggi la popolazione turistica è costituita in gran parte da cittadini britannici, statunitensi e australiani. Di contro, i paesi subito prima e subito dopo sulla sponda non hanno alcuna presenza turistica e nemmeno sono considerati borghi. La differenza probabilmente è data dalla geografia antropica del paese, che presenta abitazioni sul versante collinare e diversi viottoli che lo percorrono e ricordano i villaggi di pescatori liguri. Paolo, quando organizza le sue escursioni guidate, non le può chiamare “Gita a Varenna” senza che il Tour Operator le cambi in “Visita al borgo di Varenna”.
Come avviene l'idealizzazione del borgo? Paolo lo chiama “effetto presepe”, per il risultato quasi artificiale, fossilizzato, e ne individua tre elementi:
- Miniaturizzazione dello spazio: questo deve essere intelligibile, opposto al caos delle metropoli; deve creare una separazione fisica e visiva dalla realtà urbana dei visitatori
- Carattere domestico e rassicurante: il cittadino cerca un'accoglienza delle origini, un nuovo Eden che faccia risuonare un passato storico e pacificato
- Ipercaratterizzazione: conferma continua dell'autenticità di un luogo e della sua verità storica
Questi fattori ci permettono di capire i processi di musealizzazione e patrimonializzazione dei luoghi del vivere e dell'abitare che mutano da paese a borgo. In questo incontro Paolo ha cercato di decostruire questa narrazione tossica dello sviluppo, chiedendoci di pensare a una riqualificazione dello spazio che non sia solo in funzione dei luoghi ma anche delle persone. Il paesaggio non può essere destoricizzato, eppure è proprio quest'operazione da cui parte l'intero processo. Si inventa un confine netto fra borgo, luogo incontaminato e puro, e paese, luogo di miseria e arretratezza; cosa non troppo lontana dalla prima antropologia che contrapponeva il buon selvaggio al cittadino. Ritorna sempre più attuale la lezione di De Martino, per cui la rivoluzione era inserire i luoghi e i loro abitanti anonimi nella storia, sviluppando il concetto di presenza.
In conclusione, possiamo parlare di gentrificazione rurale, o green gentrification, per definire come i meccanismi delle città siano stati trasportati nelle campagne. Possiamo forse parlare anche di una mano neocoloniale della città nei confronti del borgo, dato che gli attori della gentrificazione rimangono sempre legati ai centri urbani. Questa politica neocoloniale metropolitana si vede anche nelle stesse politiche amministrative locali, come ad esempio le famose case a 1€, che trattano i luoghi rurali come terre di nessuno, pronte ad essere messe a frutto dai ricchi investitori. In questa manovra viene completamente dimenticato il valore sociale, culturale ed economico della casa, dato che questi luoghi non vogliono più parlare a chi li abita ma a chi li vive in maniera temporanea ma intensa.
Questi luoghi hanno sempre più bisogno di politica, che non significa solo il corpo nazionale dei parlamentari ma anche una politica locale, che agisca sulla società sul medio e lungo periodo. Hanno bisogno di dispositivi più che di procedure e di bandi, di valutazione e non di selezione, di cooperazione e non competizione, di abitanti e non di turisti. I soldi del PNRR dovrebbero essere dati a paesi come Lonate Pozzolo per essere investiti negli spazi pubblici, non a Portofino, San Giminiano e Assisi per amplificare la risonanza che già hanno.
Eivor si chiede come si inserisce in questa dinamica neoliberista il diritto all'abitare. All'interno dei processi di gentrificazione si vede il disagio sociale di cui gli attori politici sono promotori; è spesso evidente come le amministrazioni pensino soprattutto all'interesse economico, facendo passare in secondo piano il benessere delle persone. Come facciamo noi, in quanto antropologi, ad avere un impatto su queste situazioni? Una risposta chiara non c'è; il sapere antropologico non parla mai al posto di qualcun altro ma può evidenziare cose che, anche se sotto gli occhi di tutti, restano invisibili. Decostruire le narrazioni tossiche è già un grosso contributo, così come porre l'attenzione sul microscopico, sul locale, evidenziando però le influenze dei fenomeni macroscopici. È anche necessario che queste decostruzioni escano dall'accademia, riconoscendo però i limiti poi della professionalità e lasciando spazio alle altre; un libro di per sé è inutile finché non avvia un dialogo sui suoi contenuti.
In chiusura ci siamo interrogati, a seguito ad una suggestione di Alessandra, sul caso di Civita di Bagnoregio, uno dei “borghi più belli d'Italia”. Premesso che non abbiamo fonti oggettive per affermare quanto detto in seguito, da quelle che abbiamo sembra che il guadagno dalla vendita degli ingressi a Civita venga usato per opere pubbliche a favore della comunità di Bagnoregio, come la copertura finanziaria di asilo nido e TARI. Se così fosse, crediamo che questo possa essere un modo produttivo di sfruttare il turismo a favore dei locali. Anche se questo può risultare più facile per Civita e Bagnoregio data la loro geografia fisica e antropica, offre comunque uno spunto sulle alternative possibili.
Bibliografia per approfondire
- Barbera, F., De Rossi, A., eds. (2021). Metromontagna: un progetto per riabitare l'Italia. Roma Donzelli.
- Bonato, L., ed. (2017). Aree marginali: sostenibilità e saper fare nelle Alpi. Milano Angeli.
- Cersosimo, D., Licursi, S., eds. (2023). Lento pede: vivere nell'Italia estrema. Roma Donzelli.
- De Rossi, A., ed. (2020). Riabitare l'Italia: le aree interne tra abbandoni e riconquiste. Roma Donzelli.
- De Rossi, A., Cersosimo, D. e Barbera, F., eds. (2022). Contro i borghi: il Belpaese che dimentica i paesi. Roma Donzelli.
- Membretti, A., Leone, S., Lucatelli, S., Storti, D. e Urso, G., eds. (2023). Voglia di restare: indagine sui giovani nell'Italia dei paesi. Roma Donzelli.
- Teti, V. (2022). La restanza. Torino Einaudi.