La pelle sociale

Antropologia della moda e fashion theory. Ovvero come quello che indossiamo influenza le identità individuali e collettive, dalla produzione alla vendita.

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Quando pensiamo alla moda, spesso crediamo che non abbia nulla a che fare con noi ma, in realtà, siamo tutti immersi nel suo gioco. L'antropologa Karen Tranberg Hansen definisce la moda come una "pelle sociale”, riprendendo così Turner, che guarda all'aspetto materico del vestito e dell'abbigliamento. I vestiti hanno due facce: quella verso la nostra individualità e quella verso la società. Da sempre, quindi, assurgono ad espressione della nostra identità. La moda è uno dei modi più trasversali che abbiamo per parlare di identità, ma è anche rappresentativa di status e potere. Se volessimo operare una storia della moda, dovremmo partire dal momento in cui l'Occidente, nella sua fantastica impresa colonizzatrice, fungeva da dispensatore di civiltà. Il vestito avrebbe così emancipato i selvaggi dal loro costume primitivo.

Simbolo di status, identità, potere: i primi sovrani ad agire precipuamente in un atteggiamento “di moda” sono Elisabetta I e Luigi XIV, il Re Sole, che la utilizzavano per distinguersi dai lavoratori. Come ci ricorda Maria Cristina Marchetti ne “La Rappresentazione simbolica del potere attraverso la moda”, queste pratiche si staccano dal discorso economico e occupano un discorso di status. La Rivoluzione francese rappresenta, invece, l'altra faccia della medaglia: i sanculotti, chiamati così proprio per distinguerli dai reali, Robespierre, che risignifica i simboli dell'ancien régime, mescolando parrucche francesi e vestiario anglosassone, e Marat, desideroso di rappresentarsi come “capo del popolo” con l'aspetto trasandato e i turbanti. Questa tendenza viene definita come “trickle-down”, un movimento che parte dalle classi più ricche e a cascata scende verso quelle più povere. Con l'avvento della società di massa nascono poi i movimenti di rottura, come le controculture o sottoculture. Punk, goth, rave, hippie: tutte fanno parte di un processo di creazione di tendenze dal basso, per cui dal trickle-down si passa ad un bubble-up della strada, a sua volta recepito dall'alto.

La Fashion Theory studia tutto questo, differenziandosi dai Fashion Studies, che comprendono anche il saper-fare, come il marketing, la comunicazione, e tutto ciò che concerne la professione e il lavoro. La Fashion Theory, che comprende le scienze umane sociali e artistiche, parte invece dalle analisi sociologiche di inizio '900 realizzate da Georg Simmel e Roland Barthes ma anche da antropologi come Edward Sapir.

Nel saggio di Georg Simmel “La Moda” il sociologo indaga l'impianto della moda e il coinvolgimento operato sulla nostra volontà. Simmel ci parla del movimento della moda, un movimento che tira fuori delle tendenze, subito prese dagli spettatori, rinegoziate e risignificate. Queste, a loro volta, vengono riportate verso l'interno della moda, per poi diventare qualcos'altro. Il punto di Simmel è farci comprendere quanto tutti noi siamo inseriti in questo movimento, anche quando agiamo pensando di rifiutarci nell'azione verso la moda. Parte da chi è completamente soggiogato dal movimento dell'imitazione: la moda ti fa sentire appartenente ad una determinata cerchia sociale, e questo crea soddisfazione nel singolo, che sente di poter dominare al cospetto di una sfera pubblica. Separazione e ricongiungimento: mi unisco ad una moda per sentirmi dentro una cerchia sociale, che mi differenzia da altre cerchie sociali diverse dalla mia. La moda ha una duplice funzione perché nel momento in cui offre i propri frutti, subito li ritratta per offrirne di nuovi, per separarci da chi non è uguale a noi e ricongiungerci alla sfera d'appartenenza opportuna. La ricerca del nuovo senza posa. Ma nel momento in cui noi possediamo qualcosa, scopriamo una tremenda verità: quella cosa non è più di moda. La moda, quando arriva nelle nostre mani, è materia morta.
Simmel chiude il suo saggio dicendo che “il vero fascino stimolante e piccante della moda sta nel contrasto tra la sua diffusione anche e onnicomprensiva e la sua rapida e fondamentale felicità nel diritto all'infidelità nei suoi confronti sta nella stessa misura nello spazio ristretto in cui chiude una determinata cerchia sociale dimostrando come la propria causa, il proprio effetto siano l'appartenenza comune a essa e nella risolutezza con cui la separa dalle altre cerchie sociali sta infine sia nella possibilità di essere sorretti da una cerchia sociale che il buono ai suoi membri in una reciproca imitazione liberando l'individuo da un'irresponsabilità etica ed estetica sia nella possibilità all'interno di questi limiti di crearci una sfumatura personale con l'intensificazione o con il rifiuto della moda così la moda dimostra di essere solo una di quelle forme nelle quali la finalità sociale e quella individuale hanno oggettivato con gli stessi diritti le correnti opposte della vita”.

Inclusione o esclusione dal campo della moda, ciò non toglie quanto Roland Barthes negli anni '60 del secolo scorso sosteneva: è tutta una questione di discorsi. Questi, nel testo “Il Senso della Moda: forme e significati dell'abbigliamento”, pubblicato nel 2006, mettono in evidenza il carattere sociale e storico del vestito. Barthes analizza i discorsi che vengono fatti intorno alla moda e lo fa attraverso la lettura delle riviste di moda, che attraverso la lingua, parlano e significano la moda stessa. Osservando le forme del linguaggio Barthes scende ad un livello d'analisi ancora più profondo di quanto aveva fatto Simmel. L'aspetto interessante della moda è la sua analogia strutturale e significante al sistema sociale – è ciò che spinge l'autore a costruire un'analogia con il campo della semiotica. Parte dalla linguistica di de Saussure, che distingue tra langue e parole, dove la langue è un sistema generale, quindi tutta l'istituzione della moda, mentre la parole è come noi significhiamo la moda, quindi come la facciamo nostra, quali sfumature diamo alle tendenze che ci attraversano. Alla langue corrisponde l'idea del “costume” mentre alla parole corrisponde quella dell'abbigliamento, il significante singolo indumento. Barthes parla di mitologie sociali dentro il sistema vestimentario, e l'analogia serve a comprendere l'indice di inclusione del singolo individuo dentro le diverse cerchie sociali, il grado di partecipazione di ognuno di noi dentro il sistema della moda. Barthes è immerso nei parametri dello strutturalismo, ci parla anche di un sistema assiologico della moda: tutto ciò che è concesso o vietato all'interno di questo sistema, distinguendo tra fenomeni indiziari (ciò che costituisce la moda) e fenomeni significanti (il significato che le viene dato).

La criticità in questo contesto è la difficile periodizzazione storica delle mode. Non è semplice dire quando una moda comincia e quando finisce perché le linee di confine tra una moda e l'altra, tra una tendenza e un'altra, sono labili. Lo sfumare di certe mode sconfina dentro il nascere di nuove mode, ed ecco che torna il movimento di cui ci parlava Simmel, che però può essere visto con una prospettiva più ampia, dentro la dimensione atavica dell'uomo e del bisogno di vestirsi, coprirsi, definirsi. In linea generale, la moda è una massa di impressioni in costante divenire, e ogni espressione di novità implica una conseguente e immediata caducità. Il punto del nostro discorso è questo: oggi si pensa che non esistano più le mode, perché sono così veloci che si parla di micro-trend. Una tendenza che prima durava una stagione adesso dura un mese. In questo marasma di movimenti, salite e ricadute, un punto interessante è l'atteggiamento del singolo individuo.

Tutto quello di cui abbiamo parlato finora ci permette di dire che la moda è un punto di vista privilegiato per osservare fenomeni e trasformazioni antropologiche e socioculturali in molti ambiti diversi. Simona Segre Reinach, antropologa che tra i suoi studi ha realizzato anche un'etnografia tra aziende tessili italiane e cinesi, ci parla appunto di come la moda sia essa stessa il presente: un fenomeno talmente pervasivo che ci permette di analizzare la società. Riporta questa citazione di Hobsbawm, che si stupisce di come i fashion designer anticipano ciò che accadrà meglio dei sociologi e degli storici. La moda può essere un elemento centrale per studiare società e cultura in tantissimi ambiti, come ad esempio quello del lavoro, di cui ci parla la nostra ospite Viviana.


Viviana si è laureata alla triennale in Comunicazione Interculturale all'Università degli Studi Milano-Bicocca, con una tesi sugli abiti e sulla natura. Ha svolto il suo percorso di laurea magistrale a Siena, dove ha frequentato la facoltà di Antropologia e Linguaggi dell'Immagine, concludendo il percorso con una tesi di ricerca etnografica su una sartoria sociale di Milano, concentrandosi sull'antropologia del lavoro e dell'artigianato.

Ci ha spiegato che uno dei problemi più grandi del Made in Italy è la tracciabilità. L'Unione Europea sta lavorando per creare il “passaporto degli abiti” in modo da poter tracciare l'intera filiera produttiva. Il cotone ad esempio viene prodotto da una pianta, coltivata in una determinata area del mondo, e spesso accade che questo viene spostato in altre aree del mondo per completarne la tessitura. Il tessuto viene poi comprato e lavorato, prodotto in un'altra zona. Questo ci porta a chiederci quali sono le condizioni dei lavoratori e delle lavoratrici che sono dentro questo circuito. Il tema della moda e del tessile è ampio e contraddittorio. Si parla di moda sostenibile in Italia agli inizi degli anni duemila, quando c'è stato lo spostamento della produzione in altri luoghi per avere migliori risposte economiche dalle aziende.
Viviana ha iniziato a chiedersi da dove arrivano i nostri abiti, come vengono fatti e chi sono le persone che stanno dietro alla realizzazione di ciò che noi indossiamo. Ci racconta di quanto in realtà abbiamo a che fare con il tessile senza che ce ne accorgiamo: dormendo in lenzuola fatte di stoffa, asciugandoci con asciugamani di spugna, le stesse sedie sulle quali sediamo spesso sono costituite in parte da materiale tessile. La ricerca di Viviana spazia dal riciclo tessile all'inclusione sociale e lavorativa di donne, studiando come un'impresa sociale che crea empowerment ci sia riuscita tramite la sartoria. La nostra generazione sta pian piano riscoprendo l'arte del cucire, del tessere, del ricamo; qualcosa che dalla metà del secolo scorso era stata dimenticata. Si stima che nei prossimi cinque anni soltanto nella regione Lombardia si creerà un vuoto di circa cinquemila sarti e sarte. Bisogna tenere conto del fatto che questa regione è un centro fondamentale per l'ambito sartoriale, basti pensare ad esempio all'area di Como per la seta e la lana, oppure a tutte le aziende intorno Milano.

Questo è ciò che l'ha spinta a soffermarsi sulla sartoria. Tra le domande di ricerca che si è posta troviamo anzitutto il bisogno di capire come si struttura una realtà che vuole creare inclusione sociale e lavorativa, e quali sono le caratteristiche del mestiere sartoriale che lo rendono adatto ai processi di inclusione. Ha svolto un periodo di ricerca all'interno di un'impresa sociale che si chiama Spazio 3R: riciclo, ricucio e riuso. L'ente è nato a Milano nel 2016, nato da un progetto dell'Unione Europea del 2013 che aveva come beneficiarie le donne vittime di violenza. Si è deciso poi di riproporre questo progetto sul territorio di Milano dato l'iniziale entusiasmo e coinvolgimento avuto. Spazio 3R propone quindi dei percorsi di formazione e di inserimento sociale e lavorativo in ambito sartoriale. L'aspetto interessante, che lega questo spazio al tema della moda etica e sostenibile, è l'utilizzo di materiali che siano di recupero e che provengono da diverse fonti. Possono essere le aziende stesse a fornire materiale in eccesso, oppure persone che hanno magazzini ricolmi di stoffe e che decidono di donarli a realtà come Spazio 3R.

Il periodo di ricerca si è svolto dal novembre 2023 al luglio 2024. La metodologia usata prevalentemente è stata quella dell'osservazione partecipante sia all'interno dell'atelier del laboratorio, che nei diversi spazi dell'azienda. Viviana ha partecipato a corsi di formazione, osservando le interazioni tra i partecipanti, così come ai momenti di “speaking opportunities” in cui le persone vengono invitate a parlare e condividere la propria esperienza. Ha svolto poi interviste semi-strutturate, soffermandosi molto sul concetto di spazio, presente nel nome dell'azienda e vissuto a pieno dalle persone coinvolte. Al momento sono presenti tre laboratori, ed è in corso l'apertura del quarto. È un luogo vissuto e ricco di intimità, diventa casa per molte persone, anche per Viviana. È uno spazio che va oltre il lavoro, l'ufficio, il laboratorio: è uno spazio di incontro. L'aspetto delle relazioni è fondamentale: c'è un consiglio direttivo, ci sono soci e socie, le ambassadors, le sarte assunte e le tirocinanti, che possono essere ragazze che vengono da istituti di formazione professionale, così come donne in condizioni di vulnerabilità, donne vittime di violenza, donne vittime di tratta. Tutto questo crea una comunità di pratica: questo concetto sottolinea come l'apprendimento tra pari avviene in maniera positiva in un ambiente dove tutti possono imparare dagli altri, dove c'è circolarità dei saperi.

Dunque, alla domanda “come si struttura una realtà che crea inclusione sociale e lavorativa?”, la risposta è tutta nell'importanza dell'ambiente di lavoro, che dev'essere di collaborazione, rispetto e aiuto reciproco, uno spazio dove la persona viene valorizzata. Questo permette al soggetto di sentirsi in grado di fare qualcosa, di essere importante per il gruppo. Quali sono invece le caratteristiche del mestiere sartoriale che lo rendono adatto per i processi di inclusione? Il lavoro sartoriale è un mestiere fisico e manuale, dove il corpo è coinvolto a 360°, insieme a delle qualità mentali che sono fondamentali: pazienza, precisione, concentrazione. Il soggetto è coinvolto nella sua totalità, protagonista del proprio lavoro, consapevole di quello che sta producendo. È fondamentale anche l'organizzazione del lavoro in fasi. Forse, nell'esperienza di Viviana, uno dei momenti di maggiore soddisfazione è quello in cui le donne vedono per la prima volta un prodotto che loro stesse hanno realizzato, rendendosi conto di cosa le loro mani sono in grado di produrre. La gestualità e la condivisione di saperi sono altri due tasselli fondamentali per lo sviluppo dell'inclusione sociale e lavorativa, ed è proprio attraverso questi che avviene la trasmissione della conoscenza. Viviana ci ha parlato di convivialità dentro uno spazio preciso: nonostante sia un termine utilizzato per alludere al momento del pasto, può essere trasportato in questo contesto perché c'è grande condivisione.

L'incontro è proseguito in un dibattito aperto, passando dall'importanza dell'avere contezza di quanto si produce, alle questioni più tecnico-logistiche del lavoro in sartoria, ad esempio come funziona il rapporto con i committenti. Ad esempio, lo Spazio 3R ha una propria linea che produce oggettistica per la casa, ma ci sono anche aziende e privati che si rivolgono a questa impresa per produrre svariati prodotti: welcome kit per dipendenti, piccole capsule collection e tanto altro. Una domanda che Fabiana ha fatto riguarda il posizionamento di Viviana oggi, o meglio, come lei ha negoziato il suo essersi laureata in Antropologia ed essere poi uscita dal mondo accademico. Viviana si occupa di comunicazione e lo fa attraverso anche tutte le competenze che le vengono dall'approccio antropologico ai suoi oggetti di ricerca. Svolgere una ricerca etnografica ha avuto un forte impatto sul modo in cui lei percepisce e applica la sua etica nei confronti di una moda sostenibile. Abbiamo parlato insieme delle pratiche negative della moda, come quella tipica delle grandi aziende di tagliare gli abiti fuori produzione così che nessuno possa indossarli, o bruciare i vestiti provocando ulteriore inquinamento. Abbiamo anche toccato le questioni di genere legate al mondo sartoriale, parlando ad esempio del fatto che in molti paesi del mondo, come in India o in alcuni paesi dell'Africa, la figura del sarto è l'uomo. Viviana ci ha parlato del “tetto di cristallo” ma nel contempo anche di mobilità verticale. Questo richiama ciò che diceva Simmel: per mantenere un sistema sociale devi mantenere l'equilibrio. Il che non vuol dire che andrà sempre tutto bene, ma che c'è bisogno che sia sempre presente il conflitto.

Bibliografia per approfondire

  • Barthes, Roland. 2006. “Il senso della moda: forme e significati dell’abbigliamento”. Einaudi.
  • Hansen, Karen Tranberg. 2004. “The World in Dress: Anthropological Perspectives on Clothing, Fashion, and Culture” in Annual Review of Anthropology.
  • Marchetti, Maria Cristina. 2022. “La rappresentazione simbolica del potere attraverso la moda”, in Dimensioni e Problemi della Ricerca Storica.
  • Reinach, Simona Segre. 2011. “Un mondo di mode. Il vestire globalizzato”. Laterza.
  • Simmel, Georg. 1988. “La Moda”. Mondadori.
  • Suzman, James. 2020. “Lavoro”. Il Saggiatore.
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